Miguel Muñoz

Sugli scambi fra Tiziano Salari e Gio Ferri *
Poesia e filosofia


          Santiago, 25 luglio 2010.

Caro Gio, è vero…!  Nulla cambia, letto il testo in “versi” o tutto di seguito… Mi riferisco al testo di Alda Merini che con ragione mandi al diavolo in Testuale. Ci sono molti “poeti” che fanno lo stesso: non si sa perché scrivono in versi, poco lavoro con il campo e i suoni della parola, ...  Ma sei stato molto cattivo... –non conoscevo Alda Merini, adesso ho letto diversi suoi testi e penso che hai scelto uno dei “migliori”... Forse soltanto uno del ’49, La presenza di Orfeo, con dedica a Manganelli, è più elaborato..., strana evoluzione... Ma lei non è “colpevole” di essere famosa (adesso so che ha grande fama, ma la fama non è importante). Sono i mass media, attraverso l’ignoranza e poca sensibilità degli addetti, che creano queste figure dominando gli spazi. Non si intende però il Premio Eugenio Montale per lei e la promozione per il Nobel anche da parte di Dario Fo e la Accademia francese!

Più interessante e coinvolgente è la botta che presenti nel nº 46 di Testuale riguardante un articolo di Tiziano Salari pubblicato in questo stesso numero della rivista e in parte legato al nº 43-44-45 dedicato ai saggi di Giuliano Gramigna. Nella risposta alla tua botta sembra che T. Salari abbia sciolto l’àncora dall’ápeiron e dall’essere, riconoscendo il pensiero dei “maestri del sospetto”, riconoscendo il piacere di rileggere i testi dei nostri nonni Dostoevskij, Joyce, Eliot e Proust ( e anche quelli dell’altro nonno, Rilke –questo però è più “ontologico”, lo sappiamo...)

Nella presentazione del testo di Flavio Ermini L’originaria contesa tra l’arco e la vita, Salari (Testuale 46, pp. 41-42) segnala una distinzione del pensiero di Flavio dal pensiero di Heidegger, dalla «totale inusualità dell’Essere rispetto a ogni ente» (Heidegger) ad una comprensione dell’essenza dell’Essere come dolore (Flavio): «l’esercizio del dolore (Contesa) precede ogni evento-appropriazione in cui l’Essere si manifesta». Mi chiedo se questo è veramente una distinzione di pensiero, o si tratti piuttosto di una sovrapposizione equivoca al pensiero heideggeriano. Il dolore, nella Contesa, viene verificato per il costante lavoro della morte, la caduta dell’uomo che cammina su un filo, la morte degli amanti..., è l’avvicinarsi della sorella del sonno...  In Heidegger (Essere e Tempo) la morte, come concetto ontologico esistenziale, è la possibilità più peculiare, certa, e in quanto tale indeterminata dell’Esserci (Dasein): l’essere-per-la-morte. Se l’Esserci si mantiene in un essere-per-la-morte inauntentico (il “Si muore” quotidiano), è anche possibile per l’Esserci comprendere l’essere-per-la-morte autenticamente, in un aspettare attento, come “anticipazione della possibilità”: questa anticipazione permette all’Esserci di aprirsi a se stesso nella sua possibilità estrema che è la morte. L’essere-per-la-morte è essenzialmente: angoscia. «Nella angoscia» –potremmo mettere ‘nel dolore’ della Contesa–, dice Heidegger, «l’Esserci è condotto davanti a se stesso in quanto rimesso alla sua possibilità insuperabile. Il Si (“Si muore”) si prende cura di trasformare quest’angoscia in paura di fronte a un evento che sopraverrà. Un’angoscia, banalizzata equivocamente in paura, è presentata come una debolezza che un esserci sicuro di sè non deve conoscere».  Allora, quello che il testo di Flavio Ermini ci dice è proprio il modo autentico dell’Esserci heideggeriano nei confronti della sua possibilità estrema.

Da sempre gli uomini –anche i poeti e gli artisti– sanno del dolore e della morte, urlano di dolore, un urlo quasi sempre silente, sperando alcuni di entrare nella luce (religioni e mistiche di Occidente, di Oriente, del mondo precolombiano). Il fenomeno, però, sembra essere che l’uomo si mantenga a volte in un “essere-per-la-morte inautentico” [I], e a volte comprenda “l’essere-per-la-morte Autenticamente” [A]. In genere [I] e [A] vengono rivelati in diverse dosi anche nei testi poetici, talvolta come una coppia [I-A], sebbene possono mancare completamente conformandosi un puro plaisir du texte estremo, indicativo dell’Indifferenza che pure può diventare conoscenza del mondo. Nel testo qualche volta [I] è più intenso, e talvolta [A] arriva a un punto di massima. Questo non piacerebbe a Heidegger giacché «Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile [la morte], l’esserci non se la crea accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l’esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità». Forse per questo Heidegger non intende complessivamente la poesia, forse da qui la sua predilezione per certi poeti di lingua tedesca come Hölderlin, Rilke, Trakl... (Ma non dimenticare che Heidegger aveva anche predileizione per alcune squadre di calcio!)  Come tu dici (Testuale 46, p.89), «Il testo poetico va decisamente oltre [certe pretese] nella sua fluente vitalità. Perché il testo poetico non è la ‘spiegazione’ più o meno comprovata delle ragioni della vita, bensì la vita stessa».  Per quanto riguarda la dimensione ontologica dell’essere-per-la-morte il testo poetico, potrei dire, si avvolge, si raccoglie, si travolge nella combinazione di [I] e [A] sotto lo sguardo Indifferente di [  ]. Vediamo nella poesia russa in modo preliminare:
[~A]:   Natura morta (I. Brodskij), testo pubblicato in Anterem 79  (sembra
            che un testo poetico mai possa essere disposto strettamente come [A] )
[I]:       Dodici (A. Blok)
[  ]:      Giraffa (N. Gumilëv)
[I]:       Il cantare della gesta di Igor (Anonimo s. XII)
[I]:       Evgeni Onegin (A. Pushkin)
[I]:       Quando la luna è di melone... (A. Achmatova)
[I-A]    Quando tu ascolti il tuono... (A. Achmatova)
[I]:      Sono arrivata a visitare il poeta (A. Achmatova)
[  ]:     Bo-beh-o-bi cantarono le labbre (V. Chlebnikov)
[  ]:     Cavalletta (V. Chlebnikov)
[  ]:     Invocazione del riso (V. Chlebnikov)
[I]:      Quando i cavalli muoiono, respirano... (V. Chlebnikov)
[I]:      Il vento è canzone (V. Chlebnikov)
[~A]:   Orazione (M. Cvetaeva]
[I-A]:   Conversazione con un Genio (M. Cvetaeva]
[I]:       Da Catullo (I. Kutik]
[I]:       Consolazione: Campo (G. Aigi]
[~A]:    Nella nebbia (G. Aigi)
[~A]:    Spregio la luce... (O. Mandel’štam)

Non è inusuale che leggendo un testo [~A] possiamo distinguere una tensione testuale verso un modo di A sbarrata ovvero [¬A]  – come nelle poesie sopra citate di Brodskij e Mandel’štam.

Salari, riferendosi alla scrittura critica di Giuliano Gramigna, ti risponde (Testuale 46, p.91) che Gramigna «...ha insegnato a leggere i testi in modo meno impressionistico, meno ideologico, legati alle loro interne corrispondenze nel senso lacaniano dell’inconscio “strutturato come un linguaggio”. Ma, appunto, rimanendo all’interno dei  testi, esaltandone le qualità puramente letterarie».  Penso questo sia sbagliato, e non per la incoerenza di queste parole di Salari ma perché Gramigna nei suoi saggi molte volte sta dicendo sul ‘fuori del testo’. Un pensatore e critico intelligente e coltissimo, come è stato Gramigna, non andrà a cercare nei testi poetici un esplicito livello ontologico –ad esempio il pensiero che un testo ci possa dare sull’essere-per-la-morte– ma, quando la riflessione meriti, trasporterà questo pensiero a orizzonti altri, con l’intervento di altri pensieri. Altrimenti il lavoro critico potrebbe risultare banale. Nelle sue note riguardanti Il giardiniere contro il becchino di Antonio Porta, Gramigna (in Testuale 43-44-45, pp. 170-176) comincia dicendo che «la poesia, malgrado certe opinioni, è una cosa molto concreta», per dirci poi su questa «coppia oppositiva giardiniere vs becchino, trascrizione di quella, ovvia, persistenza/distruzione, che ricopre la dualità primaria libido/pulsione di morte».  E più avanti: «...giardino [“paradiso”, “paradiso terrestre”, “Eden”] fa da pivot, convertendosi, secondo necessità, in paradiso e museo: così il segno verbale dell’immortalità e la delizia [il giardino] si sdoppia in quello di “archivio della morte». (Potremmo, chissà, leggere questo brano di Gramigna come una grande metamorfosi del noto detto di Anassimandro?!)  Eppoi, in questo saggio di Gramigna, quello che ci dice sull’epifania del mimo che crea ex nihilo nel testo poetico di Porta..., il lavoro dentro la lettera: “miracolo” e “sacro”..., il confronto (p. 172) –seguendo E. Benveniste– fra “sanctum” e “sacrum”, dove l’immagine del “sanctum” viene proposta come qualcosa che si trova alla periferia del “sacrum”, che serve ad isolarlo da ogni contatto: «Figura che si è tentati di trasferire al modo di operare della poesia in genere –pensandola come quella zona che circonda, isola e insieme notifica l’ombelico del non-dicibile– periferia e centro in continuo interscambio». E ancora sulla poesia di Porta (p. 173): «...giacché il discorso sul contrasto libido/pulsione di morte si dirige a qualcuno, è altro che un lamento o certificazione desolata di sé a sé; incrocio tra lirismo e drammaticità; libertà crescente acquistata nella frantumazione/ricomposizione del testo». Il pensiero critico di Gramigna sta continuamente andando oltre, pensando quello che il testo dà da pensare, così ci propone, staccandosi dal simbolismo, una traccia dell’ “airone” di Porta nelle pagine del Golden Bough di Frazer, avvicinando una dimensione di antropologia culturale. E del testo di Cesare Viviani L’opera lasciata sola ipotizza (pp. 179-180) la voce di una “terza persona”, “la voce dell’Inesistente”; e cosí di questa opera lasciata sola: «Non sarà un caso che tutta la parte conclusiva sia costituita con il ricorso ostinato del prefisso negativo in: innominabile, infinito, invisivile, etc.; imposibilia verbali per definire, accerchiare ciò che non può esserlo. Dunque, fallimenti del linguaggio, ma produttori di poesia nell’atto di fallire. L’opera “troneggia in solitudine”, come le Madri goethiane. La poesia ricorre a ritroso il suo cammino storico: dal mondo delle cose e degli affetti, al big bang iniziale, al nulla. La fine del poemetto sembra terribile per inappellabilità: “non c’è anima”. Ma pure ci dice... che la poesia autentica, caduta ogni illusione, fa la speranza».

Sull’”autoreferenzialità” e sul testo “autoreferente” ci sono, in quanto ci occupa, dei momenti diversi che bisogna chiarire:
- Gramigna in Sul Novecento I e II (Testuale 43-44-45, p. 53) dice che gli pare la vera novità del Novecento stia legata al problema del soggetto e dell’autoreferenzialità della scrittura: «L’io non è più un dato omogeneo e stabile a priori; si tratta di rinterrogarse sulla natura e le qualità dell’”io scrivente”, sulla fenditura che lo separa dall’autore ufficiale». Gramigna inscrive qui, specialmente, il lavoro di Freud come una sovversione di conoscenza che ha influenzato anche il modo di intendere e di fare letteratura.
- Salari (Testuale 46, pp. 47-48) vorrebbe, invece o accanto Freud, uno Schopenhauer, un Nietzsche, un Bergson...  «L’amputazione della dimensione ontologica nella quale s’inscrive la scrittura e l’autoreferenzialità nella quale si risolve, mi sembrano negare alla “rappresentanza del mondo”, di cui parla Gramigna, una portata più vasta di quella annessa allo sviluppo di un sentimento poetico».  «Quello che ancora manca è una lettura delle scritture più estreme che ci faccia intuire la tensione tra scrittura, vita, ontologia, e come tale frattura si prolunghi fino a noi, aprendo uno squarcio di conoscenza che trascenda i testi e la autoreferenzialità della poesia».  Vale a dire, Salari pensa che un testo poetico cui manca la “dimensione ontologica” è un testo zoppo che si risolve nell’autoreferenzialità.
- Nella critica diretta a Salari (Testuale 46, p. 89) tu parli del banale fraintendimento, di fronte alla ricerca poetica, di un testo poetico ‘autoreferente’: «Non esiste parola poetica, se poetica è, autoreferente. Sarebbe come dire che la vita, l’universo, i micro e macro organismi sono autoreferenti. Sono perché sono. Né più, né meno. Ma come sono? Sono nella fluenza di una metamorfosi perpetua mai conclusa e mai finalizzata».
- Alla tue parole sul testo ‘autoreferente’, Salari risponde (Testuale 46, p.92) come prendendo il gatto per la coda: «Chi ha mai detto che un testo poetico deve rimanere chiuso nella sua autoreferenzialità?» Questa incoerenza gli serve di trampolino per andare ad apprezzare i “maestri del sospetto”, gli “spettri” staffilati a p. 50, e raccomandare diversi autori (Rella, Bataille, Nietzsche; Cacciari, Beckett; Vattimo) i cui testi, se ben li guardiamo, mica hanno una grande affinità con quello scritto dallo stesso Salari nei due interventi pubblicati nella rivista.

Nel primo intervento (Testuale 46, p. 39), Salari ci ricorda la condanna di Platone che volleva espellere la poesia dalla polis, ci dice sulla millenaria contesa tra poesia e filosofia. Sebbene ci propone un po’ “spinozianamente” «fondare uno spazio in cui la ricerca di verità esuli dalla tradizionale concezione di verità come correttezza o corrispondenza e si arrischi in un altrove», la fondazione di questo spazio si vorrebbe che fosse fatta in modo che «lasciandosi alle spalle tutto ciò che è presente, e nulla aspettandosi dall’ente in quanto tale, si congiunga alla permanenza dell’essere nelle sue iniziali determinazioni». Questo però sembra un aggiornamento di quello che voleva Platone quando nelle Leggi (II) dice che i poeti non dovrebbero insegnare nei cori qualsiasi ritmo, melodia e parola, come fanno ovunque fatta l’eccezione per l’Egitto dove il pittore o l’artista non può cambiare forme e canti già fissati. E Platone, condannando la mimesis nella poesia, fa anche un passo indietro (Repubblica X): «La poesia potrà tornare dall’esilio sotto la condizione che essa faccia una difesa di se stessa già sia in una oda già sia in versi altri» (questa ultima affermazione è molto divertente!)  Per alcuni studiosi come T.S. Mei (Review of Metaphysics 60, 2007, pp. 755-778) la proscrizione dei poeti nella Repubblica di Platone può essere pensata in relazione alla naturalezza della giustizia, considerandosi che Platone ripudia le formulazioni legaliste della giustizia come anche ripudia un intendimento legalista o letterale del logos poetico. Acutamente diverso è il pensiero di Massimo Cacciari nel primo saggio di Le dieu qui danse dove dice che Platone non rifiuta in quanto mimesis l’arte del pittore o del poeta epico-tragico, ma la rifiuta in quanto mimesis phantastiké, come arte che simula e inganna, e cui gioco consiste in dare una consistenza reale a quello che è pura apparenza. Quest’arte puramente immaginativa che minaccia il logos “comune” della polis non è una mimesis –se simula, se ci inganna, se è un’arte della menzogna, allora non può valere come imitazione, non ha fondamento imitativo, i prodotti di quest’arte sono le sue proprie immagini. L’arte non è condannata perché è mimesis, ma perché non è una mimesis –ovvero perché la sua mimesis è straordinaria. L’arte –continua Cacciari– mostra la possibilità “spettrale” di un fare spiegandosi fino il non-essere. Questa póiesis che non può trasformarsi in qualcosa reale finita è una póiesis di naturalezza tragica. Tragica è questa creazione “scandalosa”: il passaggio del non-essere al non-essere. La filosofia, dichiarando questa póiesis come nemica, stabilì due timai (valori) inconciliabili, ma affermando questa incompabilità il suo logos assunse la voce del mythos tragico. Se la filosofia si oppone alla tragedia dovrà anche opporsi a questa dimensione tragica dalla quale la stessa filosofia viene parlata; la sua interrogazione dovrà ricadere nella potenza tragica che è immanente al suo logos, al suo proprio “gioco serio”, e che mai potrà toccare il suo fine se non con il fine del logos stesso. Allora, conclude Cacciari, quest’arte dell’apparenza, della finzione, della menzogna, finisce per apparire come necessario. Queste digressioni possono servire alla discussione che si sta portando avanti in Testuale.

Vorrei anche dirti qualcosa sul detto di Anassimandro che è stato così capitale per il Heidegger di Holzwege. Accogliendo un’osservazione di John Burnet (Early Greek Philosophy), secondo cui la prima parte del detto non sarebbe di Anassimandro, il detto si limiterebbe a «... secondo necessità: essi pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Nelle note di Burnet possiamo leggere:  «Diels (Vors. 2, 9) begins the actual quotation with the words ex hôn dè he génesís . . . The Greek practice of blending quotations with the text tells against this. Further, it is safer not to ascribe the terms génesís and phthorá in their technical Platonic sense to Anaximander, and it is not likely thatAnaximander said anything about tà ónta»

 L’osservazione di Burnet sulla prima parte del detto è stata accolta anche da Heidegger, avvertendoci però che Anassimandro non è un “filosofo della natura” e che gli esseri di cui lui parla (tà ónta) non sono soltanto esseri naturali, ma tutti gli esseri, includendo cose naturali, dèi ed esseri umani, pratiche, umori, ecc. Ma se leggiamo i “frammenti” di Anassimandro potremmo concludere che il celebre detto di prima è una eccezione – negli altri detti le parole di Anassimandro sono quelle di un “natural philosopher” dove anche si traccia la nozione di misura, e.g., quando ci dice sulla forma cilindrica della terra, di profondità uguale alla terza parte della larghezza... I “presocratici” sono buon frutto per tutto! Mettendosi nei panni degli antichi greci, la traduzione di Heidegger della parte del detto libera di contaminazione è:  «...entlang dem Brauch; gehören nämlich lassen sie Fug somit auch Ruch eines dem anderen (im Verwinden) des Un-Fugs».Vedremo che succede col detto se fai un bel numero di Testuale dedicato ai “presocratici”!.

Questo intervento si riferisce alla discussione tra Salari e Ferri riportata in “TESTUALE” n.46.